La casa in montagna
Federica non era abituata a quella vita. Ognuno nasceva in un certo modo e lei era nata per la vita in città.
Quella baita che avevo affittato per terminare il mio ultimo romanzo si era dimostrata un buco nell’acqua. Io scrivevo sempre di meno e lei imprecava ogni dieci minuti, quando il segnale internet spariva, rendendole impossibile lavorare col computer.
Avevamo trasformato quella piccola fetta di paradiso nel nostro personale inferno.
Cosa potevamo fare per raddrizzare le cose?
Litigavamo spesso e finivamo per tenerci il muso per ore, poi si faceva pace quasi solamente per riprendere a litigare.
Iniziammo perfino a pensare ad una separazione, una volta tornati in città.
Spesso me ne stavo in veranda, sotto la lampada alogena. Guardavo l’inverno, fumando una sigaretta.
Un tempo eravamo stati una coppia da fuochi d’artificio, sempre pronti a spalleggiarci l’un l’altro come se la vita fosse stata una guerra da combattere in due. D’un tratto, senza nemmeno accorgercene, eravamo diventati la parodia di noi stessi.
Eravamo talmente presi dalle nostre rispettive esistenze che avevamo dimenticato che un tempo avevamo giurato l’un l’altro che non saremmo mai stati soli.
Guardavo il fumo della mia sigaretta perdersi nel cielo, assieme ai miei sogni sfumati nel tempo e al mio rapporto con Federica che se ne stava andando via come un lupo solitario.
Cosa c’era di così terribile ed irrimediabile nella vita per abbatterci in quella maniera, lasciandoci soli con noi stessi anche in una coppia che aveva tanto di quel potenziale da sbaragliare in partenza la concorrenza?
Rientrai in casa. Federica stava bevendo una tazza d’orzo. Restai sulla soglia a guardarla.
Era ancora così bella che poteva toglierti il fiato ad ogni sguardo.
-Cosa stai facendo?- domandai.
-Leggo le notizie del giorno sul tablet, in un raro omento in cui questa cazzo di connessione sembra ritornare per poi prendermi nuovamente per il culo.
-Posso dirti una cosa?
-Sì.
-Sei troppo nervosa. Dobbiamo scopare.
-Cosa?
-Sei nervosa e secondo me ti serve un po’ di cazzo.
-Voi uomini siete tutti uguali. Se una donna ha le palle girate è solamente perché dev’essere scopata! Che branco di ritardati.- rispose, acida come al solito.
-E non è così?
-Dai… avanti. Scopami. Prendimi se secondo te può farmi sentire meglio. Fottimi… mister “ho tutte le risposte in tasca”- disse, sardonica.
Non la volevo nemmeno guardare in faccia, perché anche solo la sua espressione riusciva ad innervosirmi all’inverosimile in quel momento.
La presi con violenza e la girai, mettendola a novanta gradi.
Probabilmente credeva che stessi scherzando, ma non aveva capito con chi si trovava a che fare. Mi aveva letteralmente rotto le palle con tutte quelle sue cazzate e i lamenti e le menate di cazzo. Adesso si sarebbe messa a novanta e avrebbe dovuto fare quello per cui, fondamentalmente, l’avevo sposata: contenere il mio cazzo.
-Che cazzo fai?- disse, notando che il mio tocco non si stava concentrando sul classico orifizio.
-Te lo metto in culo, per farti calmare un po’.- dissi.
Cercò di darmi una gomitata, ma con un gesto pronto, riuscii ad immobilizzarle le braccia e, dopo averle sbattuto la testa sul divano per farla stare zitta almeno per qualche secondo, le infilai il cazzo in culo.
-Stronzo di merda.- disse.
Non la sentii, o almeno non l’ascoltai. L’unica cosa che importava era il dare libero sfogo ai nostri istinti più animaleschi.
La inculai con una veemenza che non avevo mai impiegato nella nostra relazione. L’intero rapporto fu orchestrato dall’odio puro che provavo nei suoi confronti in quei giorni.
Volevo solamente incularla e farla soffrire.
-Non parli più adesso eh? Ti fa male il culo…- dissi.
Non rispose, ma la sentii ansimare profondamente.
-Sempre a rompere le palle con le tue cazzate. Il lavoro, la connessione… tu nel culo lo devi prendere. Devi stare zitta e prenderlo nel culo. Fine della storia.
-Fottimi il culo.- disse.
Era la prima cosa interessante che le sentii dire nell’arco di due mesi. Forse per noi c’era ancora speranza e quella speranza l’avevo recuperata grazie al mio cazzo.
Non le usai nemmeno l’accortezza di sborrare fuori. Eiaculai dentro il suo ano e dopo averle tirato una schiaffo l’abbandonai su quel letto, ancora grondante di piacere e dolore, per andare a fumare una sigaretta in veranda.
L’inverno era così bello. Niente a che vedere con la calda e banale estate.
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