Ai tempi del liceo
Ho trent’anni e un avviato studio di architettura a Roma, ma fin da quando avevo sedici anni sono sempre stata indipendente e abituata a cavarmela da sola in tutto: i miei genitori erano rimasti insieme per amore della loro unica figlia (dicevano loro) e quando, per l’appunto, compii i miei fatidici sedici anni, si separarono. Mio padre tornò a Milano e io rimasi con mia madre a Roma.
Siccome mia madre viaggiava (e viaggia tuttora) per lavoro, spesso rimanevo sola a casa, ma non era un problema, perché so governare abbastanza bene una casa e so anche cucinare. Dato che mi è sempre risultato facile studiare, e ho sempre imparato in fretta, il dover mandare avanti una casa non ha mai tolto tempo al mio studio. Non mi dispiaceva neppure frequentare la scuola, perché era, tra l’altro, un modo per ritrovarsi tra gli amici e le amiche di tutti i giorni.
Rimasi male, quindi, il giorno del mio diciassettesimo compleanno, che cade in pieno inverno, quando mi svegliai verso le sette e mezzo con qualche linea di febbre: se ne andava a puttane tutta la mia giornata, ma non potevo permettermi di uscire. Avvertii quindi mia madre all’albergo torinese dove si trovava per lavoro: mancavano due giorni al fine settimana, ma la rassicurai, e lei sapeva bene che ho la testa sulle spalle, quindi non si preoccupò eccessivamente per quello che era, in definitiva, un male di stagione. Telefonai poi al nostro medico, il quale, per fortuna, per recarsi allo studio, passa nei paraggi di casa mia. Quindi, quando arrivò poco dopo le otto, senza neppure visitarmi, mi lasciò qualche farmaco e mi disse di richiamarlo l’indomani se la situazione non fosse migliorata.
Rimasta sola, diedi un’occhiata alla casa: non c’era neppure bisogno di riordinare. Misi il vasellame nella lavastoviglie e pulii la cucina. Bel compleanno, pensai io. Niente festeggiamenti (a quelli avrei rimediato con gli amici sabato sera in pizzeria), niente compagnia, solo studiare. Ma non mi andava neppure di studiare, e poi studiare cosa? Il quadrimestre era finito, la pagella era ottima come al solito e tre professori erano in settimana bianca. Basta, quella mattina non si sarebbe studiato. Mi rimisi a letto, e verso le undici fui definitivamente sveglia. Dopo una doccia calda mi misi una vestaglia e accesi la radio per svagarmi; diedi un’occhiata ai farmaci che aveva lasciato il medico: una scatola di Borocillina, uno sciroppo, una confezione di supposte e uno spray per la gola (pensava sempre a tutto, il mio medico: ma in vita mia, a parte i vaccini, non ho mai preso medicine).
Neppure a pensare di telefonare alle amiche: tutte a scuola. Attesi quindi che i miei compagni di liceo tornassero a casa, e verso l’una e mezza del pomeriggio chiamai la mia amica Stella, per sapere cos’era successo a scuola:
“Mannaggia a te, Lucia!”, mi disse scherzosa. “Oggi la prof di latino ti ha chiamato ma tu non c’eri. Così ha chiamato me” (nel registro di classe il cognome di Stella veniva dopo il mio)
“E che ti devo dire?”, risposi io. “Cambia classe o cognome”
“Sì, va be’. Comunque mi ha detto abbastanza bene, per com’ero preparata: sei e mezzo, ma se mi avesse interrogato la settimana prossima era almeno sette…”
“Stai a guardare il capello…. gli esami sono l’anno prossimo, non quest’anno, pensa a quelli della Terza”
“Piglia sempre per il culo tu, parli bene che hai preso otto….”
“Antipatica”, dissi io “magari vai pure a dire in giro che sono secchiona…”
“Quello lo sanno già tutti. E poi non vado a parlar male delle amiche. Adesso attacco, che oggi alla prof è preso pure di spiegare e devo studiare. Non far sega (nota: a Roma “far sega” vuol dire non andare a scuola) pure domani, che sennò quella interroga pure Alessandra….”
E ci salutammo. Poi mi venne in mente: Cazzo, la prof aveva spiegato qualcosa. Quel gallinaccio non rinunciava mai ad andare avanti con le lezioni, e se ne fregava se qualcuno era assente. Richiamai Stella per chiederle se potesse passare per casa a farmi dare una scorsa agli appunti, ma mi rispose che aveva preso appuntamento da Alessandra, quella citata prima, che aveva davvero paura che l’indomani toccasse a lei. ‘Fanculo alla prof, pensai.
Mi preparai da mangiare, e pensai a quale amica potessi chiamare per studiare insieme (alla fine, per come mi ritrovavo, per passare il tempo mi andava bene perfino studiare il giorno del mio compleanno!). Ma erano tutte occupate.
Rimanevano soltanto Federico (il bello della classe, che aveva filato con un po’ tutte le mie compagne, mentre io per un paio di mesi me l’ero fatta con uno della Terza) e il suo compagno di calcetto Angelo. Entrambi bellocci di quella bellezza un po’ immatura che hanno tutti i ragazzi di diciassette anni (nel caso loro, neppure, perché i diciassette anni li avrebbero compiuti di lì a qualche mese), che costituiscono il vanto di mamme e zie varie e il desiderio infantile di ragazze di Prima e Seconda liceo. Comunque mi dovevano qualcosa, perché spesso avevo fatto loro ripetizione, e quindi uno dei due poteva benissimo passare da me. Telefonai a Federico, e fu sorpreso che al telefono fossi io. Sapeva bene, infatti, che fin dal Quinto ginnasio non avevo mai filato troppo i maschi della classe, ma avevo avuto storie sempre con qualcuno delle classi avanti (e del resto, come ho detto, ero stata un paio di mesi insieme a uno della Terza).
Gli chiesi se avesse preso gli appunti di latino (mi bastavano le tracce date dalla prof, poi sarei andata avanti da sola) e se poteva passare per casa mia.
“Mi spiace, Lucì, ma vado da Angelo”; che palle, pensai io, e poi prendono per il culo le ragazze se vanno al bagno assieme…
“E dov’è il problema?” dissi; “Venite tutti e due, che tanto biscotti e cioccolata stanno pure qui”
“’Azz.. biscotti e cioccolata?” “Sì” “Nutella?” “Che palle, sì, pure la Nutella. Che altro vuoi, una moquette di peli di fica?” “No, no, troppa grazia! Veniamo alle tre!”
E chiuse.
Alle tre meno dieci presi il latte dal frigo, lo versai in un bricco e lo misi sul fornello. Per le tre sarebbe stato bello pronto per una cioccolata bollente. Alle tre in punto squillò il citofono. Dalla finestra della cucina si vedeva bene il portone in strada: erano Federico e Angelo. Aprii il portone e lasciai aperta la porta di casa.
Quando arrivarono dissi loro “Levatevi scarpe, ombrelli, giacconi e roba varia e lasciatele tutte all’ingresso, che mi sporcate il parquet”. Infatti fuori aveva preso a piovere a dirotto già da mezzogiorno.
Tolti che si furono giacconi e scarpe, mentre versavo nel latte la polvere di cacao dissi “Datevi in bagno una lavata con l’acqua calda, che mi diventate due ghiaccioli”. “Sì, mamma”, disse Federico; “Pensi sempre a tutto, Lucia?” disse Angelo.
“Scemi, vi volete ammalare pure voi? Sbrigatevi, sennò il cioccolato lo vedete col cazzo…”
Così facendo andarono di corsa al bagno e uscirono due minuti dopo.
Portai il vassoio in camera mia, e poi andai in cucina a prendere i biscotti. Il cioccolato fumante era già nelle tazze, e chiesi loro: “Panna?”
“Come no, metti, grazie” disse Federico
“Tocca venirci più spesso qui” fece Angelo
“Come no, che problema c’è? Siete voi che andate dietro a quelle della Prima… Però adesso fatemi vedere gli appunti di latino…”
I due compagni di classe mi diedero i loro quaderni e lessi attentamente. Ogni tanto me ne uscivo con qualcosa come “Per farvi scrivere come si deve tocca picchiarvi. Siete peggio del mio medico”, ma comunque grosso modo riuscii a comprendere il succo della spiegazione, e le due ore successive le passammo ad esaminare sui testi l’argomento che la prof aveva introdotto quel giorno.
Quando furono le cinque e mezzo o le sei circa, dissi “Mi pare che per oggi basti, anche considerando che sono malata, che ne dite?”
Federico rispose: “Beh, credo che se il gallinaccio mi interrogasse domani le farei il culo. Grazie a te ho capito tutto. Ma come hai fatto se non c’eri?”
“Metodo. Un giorno ve lo spiego. L’importante è non stare dietro a tutte le stronzate della vecchia, ma tirare fuori le due o tre cose essenziali e battere su quelle…”
“E già, parli bene, tu. Pare facile a dirlo… ma piuttosto cos’avevi oggi, per non venire a scuola?”
“Un poco di febbre, credo una linea d’influenza, ma il medico stamattina è passato e mi ha lasciato quelle medicine lì” (le indicai sulla mensola) “e l’ora in cui prenderle” presi il foglietto sul comodino e guardai le prescrizioni: “Ore 6, 12 e 18, se la febbre persiste, una supposta”. Una supposta! Ebbi una malefica intuizione. Erano quasi le diciotto, e, pur non avendo bisogno affatto della supposta, decisi che per il resto del pomeriggio avrei giocato al dottore con quei due, e pazienza se erano due della Seconda. Mi sarei divertita un po’….
“Guarda, leggi, ad esempio ora devo mettermi la supposta. Anzi, già che ci sei, perché non mi dai una mano, che per me è scomodo?”
Federico fece “Ma… una supposta… e dove la metto?”
“Indovina un po’. Che fai, ti vergogni?” dissi io, togliendomi la vestaglia e rimanendo nuda. Mi sdraiaii sul letto e gli dissi: “E’ scomoda perché va introdotta dentro finchè non è entrato il dito e bisogna massaggiare un poco perché si sciolga (non è vero, si scioglie col calore del mio budellino, ma quei due erano troppo scioccati per rifletterci), e quindi non ce la faccio. Mica sarai all’antica, spero…”
“No, no… è che non ho mai fatto l’infermiere” disse scherzando.
“Si fa presto. Lavatevi le mani, e prendete quel tubetto di vaselina dalla mensola”. Così fecero.
Poi dissi ad Angelo: “Mettiti dietro di me e reggimi le caviglie”. Fui aperta, e il rosso del mio culetto si offrì a Federico.
“Adesso prendi un bel po’ di vaselina e spalmala sul buchetto, e scarta la supposta. Falla scivolare piano dentro”
Fu fatto. Arrivato che fu in fondo gli dissi: “adesso che sei in fondo metti due dita dentro e massaggia piano piano”.
Entrò con il medio e l’indice uniti, e dalla mia fica depilata iniziava a partire il tipico odore che abbiamo noi donne quando siamo bagnate e in eccitazione. Dissi “La… supposta…si deve… sciogliere…OOOH… bene…. Lavora bene con quelle… dita…..”. Ormai ero una fontanella, il lenzuolo era pieno dell’umore della mia fica, e guardai la patta dei pantaloni di Angelo: “Che fai, sei arrapato?” Gli dissi. Lui non sapeva cosa rispondere.
Risposi io: “Spogliatevi e venite qui da me, che ci divertiamo un po’….”
Rimasero un po’ sorpresi, ma il modo deciso con cui li avevo invitati non ammetteva repliche.
Spogliati che si furono, li feci mettere sdraiati ai miei lati. Divaricai le mie gambe mettendole a cavallo delle loro, e lasciai che mi carezzassero la fica, mentre ci slinguazzavamo. Poi mi misi sul fianco, di fronte a Federico, e sollevando la gamba per lasciarmi la fica apertas e sditalinabile da Angelo, dissi, prendendo in mano il cazzo di Federico: “Perché ti stanno tutte dietro? Per questo?” “Forse”, disse lui. “Adesso lo vediamo”. Iniziai a tirargli una sega, mentre Angelo, sempre meno intimidito, aveva infilato la sua mano fino al polso nella mia fica. Mi voltai verso di lui e lui si bloccò. “Beh, che fai?” gli dissi. “Inizi le cose e le lasci a metà? Chi cazzo te le ha insegnate? Continua, no?”. Ripresi la sega mentre Angelo si decise a fottermi con la mano, dapprima piano, poi a ritmo via via più sostenuto. Passai allora a prendermi in bocca la nerchia di Federico, che mi venne addosso proprio mentre, con un urlo, venivo anch’io per effetto della mano
Non se lo fece ripetere due volte. Mise due, poi tre dita nel mio culo e le allargò piano piano. Mentre succhiavo indicai ad Angelo il cassetto. Angelo lo aprii e ne tirò fuori un grosso vibratore, che passò a Federico.
Finalmente il mio compleanno cominciava ad avere un senso: presa in mezzo tra due cazzi, seppure imberbi cazzi di quasi diciassettenni, ne spompinavo uno, mentre il possessore dell’altro mi metteva tutta la mano nel culo e per non lasciare sguarnita la passera, me l’aveva riempita con il vibratore.
Non era ovviamente tutto quello che desideravo, quindi chiesi: “Come va la supposta?”
“Si è sciolta quasi del tutto”, disse Federico.
“Bene, allora lubrificala un altro po’”. Fece per prendere la vaselina e io alzai gli occhi al cielo. Si può essere più stronzi di così, pensai?
“Imbecille, usa il lubrificante TUO!” gli gridai.
Forse dovette aver capito, perché appoggiò la sua cappella al mio buco del culo e iniziò piano piano a spingere.
“Cazzo fai, ci pensi?” dissi io. “O entri o esci”. Entrò. Lo fece con un colpo secco che mi fece sobbalzare sul letto, ma ben altri cazzi erano passati là dentro perché quello di Federico mi facesse male. Iniziò a stantuffarmi ritmicamente tenendomi per i fianchi, ma non seppe trattenere l’ondata di sborra che iniettò nelle mie budella, proprio mentre Angelo mi sborrava in faccia. Mi girai, e dissi: “Venite qui, che dovete imparare ancora”. Mi presi i due cazzi in bocca per farli ritornare duri, mentre il vibratore ancora mi infilzava trionfalmente la fregna umida e vogliosa.
Mentre spompinavo i due cazzi, Federico riprese a muovermi il vibratore nella fica, e, quando le due nerchie furono sufficientemente dure, decisi di assaggiare nel culo quella di Angelo. Lo feci sdraiare sul letto e mi calai sul cazzo eretto, che mi si piantò subito nelle viscere. Tenendo sempre la fica all’aria, continuai il pompino a Federico finchè non fu il momento di essere chiavata a sandwich.
Federico tolse il vibratore dalla fica e mise il suo cazzo tra le labbra della fica. Poi spinse tutto dentro.
Finalmente potevo venire anch’io: i due cazzi sguazzavano nei miei buchi e l’orgasmo stava arrivando. Venimmo tutti e tre praticamente insieme, e i due mi riempirono di sborra in mezzo alle cosce, sì da rendere quella zona una specie di pantano impraticabile.
Federico e Angelo si sdraiarono esausti, ma io avevo ancora un residuo di voglia, perciò dissi loro:
“Cos’è, avete finito?”
“Ci siamo vuotati le palle…”
“Ma la vescica no. Datemi una lavata, che sono tutta sporca”
Detto fatto, mi misi a gambe spalancate e mi ficcai due dita in fica mentre con l’altra mano mi sgrillettavo, e mi apprestai a farmi fare la doccia di piscio, che arrivò quasi subito. Il farmi pisciare addosso mi raddoppiò l’eccitazione e urlai sul letto e mi contorsi dal piacere. L’orgasmo fu accompagnato da un urlo liberatorio. Quei due dovettero credermi un animale….
Quando tutto fu finito, e dopo essermi lavata, dissi loro:
“Piaciuta la lezione?”
“Veramente non ce l’aspettavamo, ma la sorpresa è stata piacevole”
“E questo è niente. DoFederico
“Gli dite che andate a studiare con una compagna di liceo e che dopo aver studiato si scopa. Dovete andare dal medico, mica dal prete!”
Così fecero, una volta convinti.
Inutile dire che, da quel giorno fino alla maturità, il giovedì pomeriggio, dopo lo studio, trascorremmo molti momenti lieti insieme, affinando le reciproche tecniche chiavatorie. Anche durante le vacanze estive facevamo coppia, anzi, trio, fisso, che ha anche i suoi vantaggi economici: una tenda in tre al campeggio, una doppia al residence uso triplo, e poi vuoi mettere due cazzi fissi tutte le settimane di scuola e praticamente tutti i giorni durante le vacanze estive?
Certo c’erano problemini logistici: a me piace il mare, a Federico il campeggio e a Angelo la montagna, ma salomonicamente avevamo deciso di spezzare le vacanze in tre tronconi, pur di non rinunciare alla nostra orgetta quotidiana. Per la montagna avevamo la confortevole camera; il campeggio era un po’ più problematico perché si poteva scopare in tenda, ma con discrezione. Per il mare avevo scelto una spiaggetta semideserta e piena di rocce e cespugli: mi ci voleva poco a togliermi il costume e aspettare, sdraiata dietro qualche nascondiglio naturale, di dar vita a un’orgia sotto il sole.
Quelli furono gli inizi della mia attività scopatoria. Ancora adesso non disdegno, quando conosco qualche collega arrapante, delle orge a tre o anche a quattro, e se la signora vuole partecipare, benvenuta.
Ma certe volte ripenso con affetto a come tre liceali diciassettenni, così giovani e già così porci, riuscissero a rendere piacevoli i propri pomeriggi di studio…
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